domenica 10 novembre 2013

La Cantantessa e il libro "Il dialetto nella canzone italiana degli ultimi venti anni"

Vi segnaliamo questo interessante saggio del professore Roberto Sottile, docente di linguistica italiana all'Università di Palermo, da poco pubblicato per Aracne editrice.
E lo facciamo proponendovi la lettura di una recensione scritta proprio per noi, grandi estimatori della Cantantessa, dal prof. Giuseppe Paternostro, studioso di sociolinguistica interazionale, analisi del discorso e pragmatica della comunicazione

Il dialetto “per niente stanco”

 

“L’indialetto ha la faccia scura”. Così, alla fine degli anni ’90 dell’ormai secolo scorso, una bambina  veronese rispondeva al quesito “Secondo te che qual è la differenza fra la lingua italiana e il dialetto?” che Giovanni Ruffino, uno dei più illustri linguisti (o dialettologi, come preferisce definirsi) italiani viventi, aveva posto a una nutritissima schiera di alunni (circa 9000) di quelle che allora si chiamavano ancora ‘scuole elementari’.
L’affermazione di quella bambina era il precipitato di quasi 150 anni di educazione linguistica tutta quanta contrassegnata, pur non senza lodevoli eccezioni, dall’ossessione di estirpare la “malerba dialettale” (espressione in voga nei primi decenni post-unitari, poi caduta in disuso, pur restando inalterato il pregiudizio insito nel contenuto). Un’ossessione che, per quanti sforzi si siano fatti da parte di almeno tre generazioni di linguisti, pedagoghi e insegnanti particolarmente illuminati, prosegue ancora oggi, in un quadro in cui i rapporti di forza fra italiano e dialetti (la straordinaria varietà dei dialetti italiani) si sono ribaltati nel giro di poco più di due generazioni (dalla fine degli anni ’70 a oggi).
Ma proprio negli stessi anni, al di fuori della scuola (che anche in questo caso continua a dimostrare la sua tragica inadeguatezza), nel corpo vivo della comunità dei parlanti  si assisteva a quello che con, una felice definizione, Alberto Sobrero (altra importante figura di linguista che preferisce per sé l’etichetta di dialettologo) ha definito “lo sdoganamento del dialetto”. Esso risorge in spazi (si pensi solo al web) e con funzioni impensabili fino a pochi anni fa. E ciò grazie a utenti (principalmente giovani) che hanno deciso di volgere il loro sguardo all’indietro per (cercare di) riconquistare un patrimonio la cui trasmissione è stata interrotta spesso dagli stessi genitori, pronti a censurare qualunque balbettio vernacolare dei loro pargoli che rischiasse (secondo un pregiudizio duro a morire) di impedire loro di acquisire la lingua italiana.
Il dialetto oggi si usa nel gruppo dei pari, si scrive persino (negli SMS, nelle chat, nei blog, ma anche in generi “alti” come il romanzo). E si usa anche per porsi in modo antagonista rispetto allo status quo (vedi l’esperienza dell’hip hop nostrano). Il dialetto, insomma, come è stato scritto, non è più un delitto.
Alla lingua dei nostri nonni (e dei nostri padri, che hanno cercato di esserne i malaccorti killer) è, in sostanza, accaduto ciò che spesso accade agli sconfitti dalla storia (già, perché l’italiano è oggi incontrovertibilmente la lingua comune di tutti gli italiani, anche di quelli che la legge non considera tali – come i figli degli immigrati nati nel nostro Paese): quello di assurgere a simbolo. Simbolo ideologico e di vuote rivendicazioni localistiche, ma, soprattutto e fortunatamente, anche simbolo di una nuova espressività in campo artistico, ivi compreso quello musicale, il cui linguaggio, negli ultimi vent’anni ha subito un profondo rinnovamento, grazie anche alla nuova funzione assunta nei testi dal dialetto, non più relegato a oggetto folkloristico. 
Come interpretare, dunque, l’impressionante aumento della produzione in dialetto nella scena musicale italiana dei primi lustri di questo nuovo secolo? Nel volume Il dialetto nella canzone italiana degli ultimi venti anni (Aracne editrice), Roberto Sottile, ricercatore di linguistica italiana dell’Università di Palermo (ma anch’egli, ci piace pensare, non considererebbe ‘dialettologo’ parola d’offesa), ne offre una chiave di lettura in grado di solleticare la curiosità sia dello studioso di linguistica sia dell’appassionato fruitore di musica (appartenendo egli stesso alla schiera dei primi e dei secondi).
Nel libro, l’autore dà spazio alla riflessione sociolinguistica, ma soprattutto ai testi e agli autori (quasi tutti siciliani), alle cui biografie artistico-musicali dedica un intero capitolo. Ed è quest’ultima la parte più riuscita di un lavoro peraltro eccellente, in cui, senza venire meno al rigore scientifico, Sottile discute le motivazioni (linguistiche, espressive, ideologiche) alla base della scelta di usare il dialetto da parte dei più di cinquanta artisti (solisti o band) citati, alcuni dal seguito vastissimo, molti altri di circolazione più locale e di seguito più ristretto. E lo fa dando voce (è il caso di dirlo) non solo alle canzoni (con una ricca antologia commentata), ma anche al racconto autobiografico degli artisti, i quali hanno avuto così la possibilità di spiegare il senso del loro scrivere in dialetto per musica.
Fra le autobiografie e i testi del ricchissimo lavoro di Sottile trova posto anche l’esperienza di Carmen Consoli. Veniamo così a scoprire quali sono le motivazioni delle incursioni/escursioni nel siciliano della cantantessa. Si tratta, come scrive la stessa Carmen, di “una ricerca delle proprie radici, attraverso un linguaggio più antico dell’italiano stesso, un linguaggio che in qualche modo ne è l’antenato”. Difendere il dialetto significa difendere l’identità di un intero popolo e difendere l’identità di un popolo significa difenderne la dignità e respingere la distruzione delle sue bellezze: “Negare la bellezza della poesia in dialetto è come avallare enormi gettate di cemento su antichi siti storici”. La lingua, dunque, come bene culturale, così come bene culturale dovrebbe essere considerata la canzone d’autore.
Carmen ha difeso questa bellezza sia come interprete di Rosa Balistreri (autentico modello di cantantessa ante litteram) in brani come Mi votu e mi rivotu e Cu ti lu dissi o di omaggi a figure esemplari di un’altra Sicilia possibile (come la struggente Çiuri di campu, poesia di Peppino Impastato tradotta in siciliano da Moffo Schimmenti), sia come autrice essa stessa di pezzi in dialetto. Nell’antologia che chiude il volume, troviamo l’analisi di Masinu (dall’album L’eccezione) che possiamo considerare la sua prova più riuscita di autrice di testi in siciliano. Il pezzo presenta lo stesso andamento antipoetico dei suoi brani in italiano, ma, e qui sta crediamo la sostanziale differenza con la sua preponderante produzione in lingua, la ricercatezza lessicale dei pezzi in italiano lascia il posto a una ricerca, che è, appunto, la ricerca di ciò che chiamiamo identità, spesso non sapendola definire, ma sapendola sempre esprimere.



 Giuseppe Paternostro, Università di Palermo



    
ROBERTO SOTTILE, Il dialetto nella canzone italiana degli ultimi venti anni.
Prezzo: 13,00€ (ebook: 7,80€ );
Pagine:308;
Formato: 14 x 21;
Data pubblicazione: Settembre 2013;
Editore: Aracne;
ISBN:978-88-548-6378-1

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